Saigon - Sulle orme di due grandi reporter italiani

30 Maggio - 02 Giugno 2016

Da Kampot a Saigon (la chiamerò così perché noi l’abbiamo conosciuta sui libri con questo nome e ci è rimasta nel cuore così) il tragitto è molto lungo: si parte la mattina e si arriva a sera tardi.
Il primo tratto è da brivido con un minibus sparato a centoventi all’ora su una stradina piena di saliscendi in cui lo stomaco viene prima sparato al soffitto e poi spiaccicato al suolo, con sorpassi da arresto immediato e almeno 10 anni di vita persi. Sempre se si riesce a scendere vivi. Noi fortunatamente ci riusciamo. Insieme a noi c’è un altro turista asiatico che si atteggia vagamente da backpacker occidentale: pantalone leggero e larghissimo con fantasie orientaleggianti, cappello di paglia e Rayban sempre indosso. Quantomeno bizzarro ma simpatico.

Arriviamo in dogana e io ed Erika ci mettiamo in fila per il timbro di uscita dalla Cambogia. Il tipo asiatico invece cerca un bagno disinteressandosi completamente della cosa. Pensiamo sia cambogiano ma quando ci ritroviamo tutti sul pulmino per fare il piccolo tratto di terra di nessuno prima della frontiera vietnamita gli chiediamo se è sicuro che a lui non serva: ci risponde che essendo vietnamita non gli serve. Bah ci saranno le frontiere aperte come in UE. Poi quando al primo posto di blocco vietnamita ci chiede “ma dove si fa il timbro di uscita della Cambogia?” capiamo che è un po’ un cojone. Lui aveva capito che noi stessimo facendo il visto vietnamita: se ci stessi a sentire quando parliamo magari! Lui torna quindi indietro e noi proseguiamo. Sbrighiamo tutte le formalità velocissimamente e troviamo un altro minibus dall’altra parte della frontiera che ci aspetta; come saliamo parte. Ci chiediamo se il nostro amico lo stiamo lasciando qui ma ci diciamo che probabilmente lui avrà qualcuno che lo è venuto a prendere.
L’autobus è comodo, è uno sleeping bus e oramai abbiamo imparato a prenderci sempre i posti posteriori dove possiamo stare vicini in dei letti multipli con più spazio. L’unico piccolo inconveniente è che non sono solo due letti ma sempre almeno tre o quattro, quindi uno di noi due è a contatto con qualcun’altro, ma non è troppo un problema. Anzi questa volta siamo anche riusciti a fare amicizia con un ragazzo vietnamita che conosce un po’ di inglese. Ci ha consigliato qualcosa da mangiare, ci ha spiegato lungo la strada dove eravamo e ci ha anche chiesto se volevamo condividere il costo del taxi una volta arrivati a Saigon. Questo primo contatto con un esponente del popolo vietnamita ci sta proprio piacendo! È assolutamente disponibile e anzi si preoccupa per noi cosa che non provavamo dai tempi dell’Iran (comunque inarrivabile). Speriamo siano tutti così!!
La strada dalla Cambogia a Saigon si snoda nella regione del delta del Mekong, una delle maggiori attrattive del Sud. Mentre viaggiamo infatti dal finestrino scorre questo ambiente quasi lacustre, con un’infinità di canali, barchini come mezzo principale di trasporto e palafitte sull’acqua come case. Un ambiente molto diverso da quello visto fino ad ora e veramente affascinante! Addirittura dobbiamo imbarcarci con l’autobus in un traghetto per superare uno dei rami più estesi del fiume. Decidiamo che o tramite un tour organizzato, o meglio da soli, dobbiamo venire a scoprire questo angolo di mondo così particolare e importante.
Arriviamo a Saigon verso le 22 e non ci sono collegamenti pubblici per il centro città quindi con il nostro amico prendiamo un taxi. Ci dirigiamo verso la guesthouse che avevamo prenotato su Booking.com, in quanto sapevamo che saremmo arrivati tardi e non avremmo avuto il tempo di cercare qualcosa di appetibile. Il nostro amico, attratto dal buon prezzo, si accoda visto che invece lui non ha un posto dove stare; purtroppo una volta arrivati il gestore (gentilissimo) ci dice che è tutto al completo ma gli consiglia un paio di luoghi dove andare a cercare. Gli diciamo che, se vuole, nel frattempo che cerca, può lasciare qui lo zaino in modo da camminare più leggero, noi lo aspetteremo. Lui accetta felice e ci dice che verrà a recuperarlo una volta trovato un posto dove stare. Ci mettiamo nella zona comune della guesthouse dove il proprietario ci mostra tutte le attrazioni della città e anche un ottimo libro, preparato da lui, con i migliori posti dove mangiare. Sono quelle persone che vorresti incontrare in ogni città del mondo! E anche la guesthouse è molto particolare, arredata con gusto con il bamboo come principale materiale decorativo. Passa una buona oretta nella quale ci intratteniamo facendo quattro chiacchiere ma alla fine siamo veramente stremati. Il proprietario vedendoci veramente sfiniti ci dice di andare a dormire che il nostro nuovo amico lo aspetterà lui per dargli il suo zaino. Non sappiamo come ringraziarlo. Ci precipitiamo nei nostri letti, doccia veloce e a nanna.
Il mattino seguente come primo task abbiamo quello di trovare un’altra guesthouse visto che avevamo prenotato per una sola notte e stasera qui le stanze sono tutte piene. Uscendo dal vicolo dove alloggiamo, in uno dei tipici agglomerati di sedioline e tavolinetti di plastica dove si consuma cibo da strada qui in Vietnam, indovina chi ti incontriamo? Proprio il nostro amico con il suo zaino, che ci racconta che lo è venuto a prendere ora perché ieri sera mentre cercava la sua guesthouse si è preso un paio di birre in un pub, si è un po’ ubriacato ed è andato a dormire. Noi rimaniamo senza parole. Ma come? Ci dici che saresti tornato il prima possibile, noi ti diciamo che ti aspetteremo svegli e te ti fai du birre e poi vai a letto?? (Nota di Marco del futuro: lì per lì la nostra reazione è stata di sbalordimento ma ora che sto scrivendo questo ricordo mentre stiamo per uscire dal Vietnam mi viene quasi da sorridere: questo episodio è stato solo il primo approccio con l’affidabilità vietnamita, lontana anni luce dal nostro concetto di parola data, ma che abbiamo capito essere parte integrante di questa cultura così lontana dalla nostra e non fatto con malizia).
Ci chiede e vigliamo sederci con lui per una gustosa zuppa calda di prima mattina ma ancora non siamo pronti per questo passo!! Alla guesthouse ci hanno consigliato un’ottima patisserie stile francese proprio qui vicino: mica ce la vorremmo far scappare! Dopo un ottimo cornetto e un frullato andiamo alla ricerca dell’alloggio per i prossimi giorni. Ci infiliamo in una piccola stradina proprio dietro la pasticceria e vediamo sui portoni della maggior parte delle palazzine, o meglio delle “case a tubo” tipiche vietnamite, la scritta “room for rent”. Pensiamo si tratti di camere da affittare per lunghi periodi ma decidiamo di provare comunque a chiedere. Una simpatica vecchietta ci accoglie e ci fa parlare con il figlio. Questo ci mostra la stanza, pulitissima e nuova, ci accordiamo sul prezzo e in un battibaleno il task è portato a termine. Le case a tubo sono delle palazzine strettissime e molto alte; occupano solo la larghezza relativa a un garage, dove di solito si trova il negozio di famiglia, e poi le stanze si sviluppano tutte in altezza sopra di questo. Solitamente, in una via, ce ne sono diverse unite fra loro a formare un corpo unico in cui ogni striscia verticale, ogni casa appunto, ha un suo colore e un suo stile, ma a volte queste case svettano solitarie, strette e alte, sulle casette circostanti creando delle bizzarre cornici per i viali vietnamiti.
Sistemata la nostra roba è tempo di andare a cercare l’agenzia che abbiamo trovato su internet per il tour sul delta del Mekong: vogliamo sentire cosa ci può proporre e a che prezzi in modo da decidere se ne vale la pena affidarsi a un tour operator. Arrivarci si è rivelato una piccola avventura; prima per trovare l’autobus che ci portasse dall’altra parte della città, e qui ci è venuto in aiuto il gestore di un hotel che si è informato per noi con gli autisti dei bus fino a trovare quello adatto a noi, e poi, una volta scesi alla fine di un cavalcavia, per riuscire a raggiungere la strada che passava sotto di questo. Ci siamo infilati in un sentiero putrido in mezzo alle costruzioni in cemento fino ad arrivare a delle baracche. Qui un rigagnolo verdognolo ci sbarrava la strada e, non avendo voglia di tornare indietro, tento di superarlo mettendo i piedi su dei pezzi di legno. Uno di questi affonda senza opporre la minima resistenza appena ci appoggio il piede così che mi ritrovo immerso nell’acqua fino al polpaccio. Con un guizzo salto nell’altra sponda ma, considerando l’accaduto, dico a Erika di non provarci nemmeno, non che lei avesse la minima intenzione. Torna quindi indietro, sale sul cavalcavia e scavalca il guard rail in prossimità di un lampione, la cui base ora ci accorgiamo essere usata come scalino per salire e scendere.
Giungiamo finalmente all’agenzia dove ci accoglie una carinissima ma stupita ragazza vietnamita. Dopo un po’ di imbarazzo riusciamo a parlare al telefono con il titolare che ci ringrazia mille volte di aver fatto lo sforzo di raggiungere l’agenzia ma che non ce n’era alcun bisogno: bastava mandare una mail e lui ci avrebbe risposto. Il fatto è che a noi le persone devono convincere faccia a faccia (perché già prendiamo cappelle così, figuriamoci a distanza). Gli lasciamo quindi la mail e ci promette che entro sera ci risponderà.
Torniamo verso il centro saltando al volo nello stesso autobus che ci ha portato qui (e che scopriamo avere la fermata a pochi passi dall’agenzia senza doversi improvvisarsi novelli Indiana Jones “alla ricerca del cavalcavia perduto”). Passiamo prima per il grande mercato di Ho Chi Minh City, oggi solo un immenso e caotico souvenir shop. Andiamo poi alla scoperta della “nostra” Saigon come l’abbiamo imparata a conoscere dai libri di Terzani e della Fallaci, corrispondenti di guerra qui durante i momenti più caldi del conflitto con gli americani. La prima tappa è l’hotel Continental, casa di tutti i giornalisti in quegli anni, e di fronte il Caravelle, l’altro hotel con la terrazza più alta di Saigon in cui le signore dabbene venivano per i cocktail chic.

“[…] Sera. Il coprifuoco incomincia alle sette ma per noi bianchi c’è tolleranza, e poi l’Hotel Caravelle è proprio di fronte al Continental. Così, dopo cena, noi del Continental si attraversa la piazza e si va al Caravelle, che ha la terrazza più alta della città, così alta che di lassù si domina tutto: a nord, a sud, a est, a ovest. Sulla terrazza vi sono sedie, tavolini, e i camerieri in giacca bianca portano whisky, gelato, caffè. Proprio come a Roma, a New York. I frequentatori sono americani, francesi, giornalisti, diplomatici, funzionari che ci vengono insieme alla mogli. Profumate, pettinate, in minigonna. «ça va, chérie» «Darling, how do you do? » «Il faut, il faut que vous veniez déjeneur avec nous cette semaine!» «You must, you absolutely must have a drink at our place! » e ridono, si fanno le feste: sembra d’essere a teatro. Ma siamo a teatro. La platea è la terrazza del Caravelle e il palcoscenico è Saigon in agonia.
Mi spiego? Tu stai li a bere il whisky, a leccare il gelato e intanto guardi la gente che muore. «Whisky and soda or on the rocks?» e osservi i Phantom che si buttano in picchiata contro un quartiere poi sganciano bombe da mille chili, napalm. «Moi je préfère le chocolat, pas de vanille» e osservi gli elicotteri che gettano razzi su un gruppo di vietcong, mitragliano un soldatino giallo che il bengala illuminò. «What a nice dress, sweety!» «Guarda quella bomba, laggiù! Cade, è caduta, vedi le fiamme?» e le fiamme si alzano e squarcian di rosso il cielo di pece: «Fantastic!». Un boato vomita un altro boato, l’aria trema: «Extraordinary!». Quante creature stanno spirando, dilaniate da quella bomba? Quante case stanno crollando, cotte da quel napalm? E’ tutto fuoco l’orizzonte a destra, è tutto un martellare l’orizzonte a sinistra, e i bengala calano sulla città come lingue di pentecoste, come comete per i re Magi. Più graziose, anzi, perché messe a corolla. «No, io direi che sembrano candeline sui bordi di un dolce». Sai, i romani che andavano al Colosseo per vedere morire i gladiatori. Sai, Nerone che suona la lira mentre bruciano le case dei poveri. Tanto, son sempre i poveri che ci rimettono: la guerra colpisce i poveri della periferia: mica i borghesi del centro. Tanto, son sempre i gladiatori che muoiono: mica i ricchi. A Roma, a Saigon, nel Colosseo, sotto la terrazza del Caravelle. E, poiché Cristo scese in terra ad insegnarci l’amore, c’è sempre la Messa di domenica mattina per riscattarci con dieci Pater, dieci Ave, dieci Gloria e, perché no?, un Requiem Aeternam che dica così: «Padre nostro che sei nei cieli dacci oggi il nostro massacro quotidiano, liberaci dalla pietà, dall’amore, dalla fiducia nell’uomo, dall’insegnamento che ci dette tuo figlio. Tanto non è servito a niente, non serve a niente. A niente e così sia».”

Oriana Fallaci, “Niente e così sia”, 1969

”Continental
L’hotel Continental in tempo di pace

 

”Caravelle
L’hotel Caravelle…che un tempo dominava la skyline

E’ su quella terrazza che la Fallaci compone la sua potentissima preghiera contro l’inutilità della guerra, che darà anche il titolo al suo libro da Saigon; preghiera che sembra poi rinnegare nei suoi ultimi scritti, vinta dall’orgoglio della nostra cultura e dalla rabbia scaturita dalla vigliaccheria degli attentati terroristici.
Siamo qui su questa piazza affollata di motorini e macchine ma con la mente siamo con lei su quella terrazza che vediamo da quaggiù. Venendo qui abbiamo anche incrociato velocemente “rue Pasteur“ altro punto nevralgico della “nostra” Saigon. Su quella via vi era l’ufficio della France Presse, con a capo il mitico François, mentore e grande amore della nostra grande giornalista. Ma decidiamo di andarci dopo, prima vogliamo andare all’Indipendence Palace, Doc Lap, definito anche palazzo presidenziale prima della fine della guerra. Era qui infatti che il presidente Thieu ha tenuto il potere fino a pochi giorni prima della caduta di Saigon, il 30 Aprile 1975.

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Il palazzo presidenziale

Ci sediamo su di una panchina nel parco al di fuori dell’immenso cancello in ferro del palazzo, in fondo alla via si intravede tra gli alberi la cattedrale cattolica, e rileggiamo le parole di Terzani di quella giornata campale in cui i soldati del nord irrompono in una città oramai sconfitta e quasi si perdono nel cercare, in una città a loro sconosciuta, il palazzo presidenziale del governo da loro definito “fantoccio”.

“[…] L’avanzata verso Saigon fu poi raccontata così da Nguyen Trung Tanh, uno dei partecipanti: […] «Ci muovemmo alle cinque. Non avevamo più da temere l’aviazione e tenevamo tutte le nostre batterie antiaeree col tiro abbassato. Con quelle ci facemmo strada. Alle sei avevamo già alle spalle il ponte di Long Binh e quattro mezzi blindati M-113 dei fantocci distrutti. Al ponte di Rach Chiec dei carri nemici ci bloccarono per un po’ sparando dei missili anticarro, ma il nostro squadrone di testa li distrusse uno ad uno. Alle 11 eravamo sul ponte di Thi Nghe. «La porta di Saigon era aperta, dinanzi a noi. I primi tre carri rullavano già sulla via Hong Tap Tu, quando due M-41 nemici si pararono dinanzi sparando alla follia. Il nostro carro 390 ne colpì uno con un proiettile perforante, l’altro andò in fiamme colpito dal carro 843 di Bui Quang Than. La strada però era rimasta bloccata, il carro 843 girò sulla sinistra e si ritrovò sulla via Mac Dinh Chi. La direzione era persa. Il capo carro Than vide sul marciapiede due soldati fantoccio in uniforme mimetica.
«’Dov’è Doc Lap’» chiese Than.
«Uno non rispose. E l’altro ‘Lo so io’.
«Than Tolse loro le giacche dell’uniforme e li fece montare sul carro che all’incrocio seguente voltò a destra. Than non si fidava. Vide una ragazza su una Honda, si mise ritto sul carro ed urlò:
«’Per favore, da che parte rimane Doc Lap?’
«La ragazza guardò stupefatta il nostro combattente. Era certo la prima colta che vedeva un soldato delle Forze di Liberazione.
«’ Siete sul viale Thong Nhat. Il palazzo eccolo là, davanti a voi’, rispose
«Il carro 843 si lanciò su Doc Lap. Era mezzogiorno»
[…] All’altezza della cattedrale, il carro 843 aveva aperto il fuoco, sparando in aria come per annunciarsi, tirando al di sopra del tetto sul quale sventolava ancora la bandiera gialla a tre strisce rosse della Repubblica. I soldati della guardia esterna erano già scappati.
Than dall’alto della sua torretta aperta guardava sugli ultimi metri del viale Thong Nhat le uniformi, i giubbotti antiproiettile, gli elmetti, i mitra, i sacchi di granate abbandonati. Il cancello era chiuso. Il carro aveva accelerato e come un fuscello di legno la cancellata di ferro s’era abbattuta per terra. I cingoli s’erano srotolati veloci sull’erba girando a destra della fontana in mezzo al giardino ed il carro si era fermata dinanzi alla gradinata vuota del palazzo. Gli altri due carri s’erano messi dietro ai lati.
Than, il mitra in una mano e nell’altra la bandiera del fronte strappata dall’antenna della radio, era saltato giù dalla torretta. I suoi sandali di copertone avevan fatto a balzi gli scalini dell’ingresso. Arrivati sul grande tappeto giallo coi draghi azzurri della hall, Than aveva incontrato Nguyen Huu Hanh, generale dell’ARVN in uniforme con una stella d’oro sul collo della camicia. Dietro di lui c’erano il presidente, il primo ministro Vu Van Mau, Ly Qui Chung, Nguyen Van Ba e il resto del governo.
«Dov’è il signor Duong Van Minh?» aveva urlato Than.
«State calmo. Ci siamo già arresi», aveva risposto, facendosi avanti, il presidente.
[…]«Da dove si sale?» aveva chiesto il comandante Than.
«Da qui», aveva risposto Nguyen Huu Thai, lo studente, mostrandogli l’ascensore.
In un attimo Than era arrivato sul tetto e, dopo averla sventolata violentemente a due mani, aveva issato la bandiera del Fronte sul pennone più alto nel centro del palazzo. Erano le 12.15”

Tiziano Terzani, “Giai Phong! La liberazione di Saigon”, 1976

Entriamo dal cancello principale e i due carri armati n. 390 e 843 sono ancora lì sulla destra come se quel giorno tutto si fosse fermato.

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Il simbolo della caduta di Saigon

La visita del palazzo non offre in se per se particolari emozioni, si visitano le stanze del potere del Vietnam del Sud, le stanze private del presidente e i bunker antiaerei. Molto interessante invece, nel seminterrato, in una piccola stanza molto poco pubblicizzata, viene proiettato un filmato di una mezzora che ripercorre la storia del palazzo e, quindi, della storia recente del Vietnam. Ovviamente è stata scritta dai vincitori, in questo caso i vietnamiti quindi per una volta è interessante vedere dipinti gli occidentali come “i cattivi”, essere etichettati “imperialisti” che volevano conquistare l’indomito popolo vietnamita. Indubbiamente con un fondo di verità ma anche di propaganda. Mi sorge il dubbio se anche la nostra storia è scritta in questo modo, con le verità fatte passare attraverso la sola lente dei vincitori. Probabilmente si.
Usciamo e mangiamo in un ristorantino a due passi dal palazzo le migliori specialità di Saigon.

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E si comincia col fritto

 

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Un pranzo da re

Poi ci dirigiamo verso la cattedrale, ma non attraverso la via più diretta. Dal cancello del palazzo andiamo diritti per un centinaio di metri poi svoltiamo a destra su rue Pasteur, chiedendoci in quale di questi palazzi fosse l’agenzia della France Presse, poi di nuovo a sinistra verso la statua della Madonna che domina la piazza antistante la chiesa.

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Rue Pasteur…dove era la France Presse??

Qui si è svolta una delle scene più toccanti del libro della Fallaci, l’incontro/scontro tra François e il generale Loan, il comandante della polizia di Saigon, che rileggiamo e riviviamo come se tutto si svolgesse di fronte ai nostri occhi.

“[…] ognisera, verso le 8, François lascia l’ufficio e va al Continental per la radio francese. […] E spesso qualcuno gli chiede di andare con lui. […]Stavolta glie l’ho chiesto io.[…]
Siamo saliti sulla sua automobile. Abbiamo percorso 50 metri di rue Pasteur e abbiamo girato a destra, per raggiunger la piazza della cattedrale. Era buio ma non troppo, sicché quando siamo arrivati alla piazza l’ho subito visto. Circondato dai suoi poliziotti, appoggiato alla sua jeep, proprio accanto all’aiola che sotto la statua della madonna. Ci ha visto anche lui, naturalmente. L’automobile di François è inconfondibile, una grossa Ford nera con un cartello sul quale è scritto «AFP. Bao chi. Stampa». E François gli è passato vicino, vicino, quasi volesse farsi guardare bene. Ma lui non ha fatto un gesto, non ha detto una parola, o l’ha detta solo ai suoi uomini: di lasciarci andare. Così abbiamo continuato fino al Continental. Qui siamo rimasti mezz’ora. François con quelli della radio francese io al bar. Poi siamo saliti di nuovo sull’automobile. In silenzio. Credevo che passasse da un’altra parte, per la piazza dell’Indipendenza ad esempio, evitando la cattedrale. Invece, con una curva secca, ha riportato la macchina in direzione della cattedrale. E ci ha puntato dritto. «C’è Loan» ho balbettato. «Lo so.» Aveva un viso di pietra. «Ora ci fermerà.» «Lo so.» «Ma…» «Tais-toi. Chetati.» Dal Continental alla piazza della cattedrale ci sono sì e no cento metri. Poi, in piazza, si svolta a sinistra e si imbocca la strada che conduce a rue Pasteur. Loan ci aspettava proprio a quell’angolo. Coi fari accesi e i suoi uomini dal fucile puntato. S’era messo dinanzi a loro e ci aspettava con aria indolente, fumando una sigaretta. «Eccolo.» François non ha risposto. Non ha neanche rallentato. Ha continuato con quel viso di pietra. Poi ha frenato, di colpo, ad appena due metri da lui. Ha spalancato la portiera. E’ sceso.”

Oriana Fallaci, “Niente e così sia”, 1969

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Notre Dame de…Saigon!

In più con le indicazioni contenute in questo passaggio tentiamo di ricostruire la posizione esatta della France Presse ma le informazioni sono troppo scarse e probabilmente approssimative non essendo di certo questo il succo del racconto. Così appena rientrati nella nostra stanza in affitto facciamo un po’ di ricerche su internet ma da nessuna parte è scritto il numero civico dell’agenzia. Nel sito saigon-vietnam.fr scopriamo però che all’inizio degli anni ’50 a Saigon si stampava un giornale francese (Journal de Saigon) nella sede della France Presse in Rue de Pellerin 146. Andando a ricercare informazioni riguardo questa Rue de Pellerin viene fuori che nel 1955 è stata rinominata proprio rue Pasteur! Almeno abbiamo una traccia. Certo in sessant’anni i numeri civici possono essere cambiati ma a noi piace pensare che di fronte questa palazzina bianca in rue Pasteur 146 si siano svolte le vicende del libro “Niente e così sia”.
La sera usciamo a fare due passi per la via dello struscio di Saigon, di fronte al palazzo comunale, piena di quegli strani aggeggi a due ruote che si pilotano solo con lo spostamento del corpo. Pare essere l’ultima moda qui! Prima di andare a letto ci risponde il tipo dell’agenzia da cui siamo andati stamattina e, nonostante il programma non banale e allettante, ci spara un prezzo oltre ogni nostra immaginabile portata, quindi ringraziando, decliniamo l’offerta: faremo da noi.
Il secondo giorno inizia molto presto con la nostra solita corsetta mattutina in un parco qui vicino. Anche qui già dalle 6 di mattina gli spazi verdi cittadini vengono presi d’assalto da tutti gli sportivi e non della città: tra corsa, arti marziali, meditazioni, partitoni di badminton ed esercizi vari, si è immersi in una piccola folla operosa.

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Allenamento con i vietnamiti

Quando il gestore della prima guesthouse ci ha illustrato le possibili cose da vedere qui a Saigon ha accennato anche ad un interessante Museo della medicina tradizionale: a me sono subito brillati gli occhi ed Erika avendolo capito mi ha promesso che ci saremmo andati. Stamani andiamo proprio lì.
La strada non è lunghissima per arrivarci e come al solito preferiamo farcela a piedi. In primis per conoscere meglio la città al di fuori degli itinerari classici e poi anche per risparmiare un poco. La passeggiata ci porta in un quartiere un po’ anonimo in cui fatichiamo a trovare il museo. Un simpatico vecchietto però vedendoci smarriti ci indica una costruzione in legno molto particolare, che spicca tra le altre. Noi ci chiediamo come faccia a sapere cosa cerchiamo ma probabilmente due occidentali qui non vengono per molto altro.
Entrando l’atmosfera di questa graziosa casa in legno ci colpisce: è estremamente curata ed raffinata e la signorina al banco è vestita con un bellissimo abito tradizionale vietnamita di un rosso acceso, con i tipici spacchi fino sopra i fianchi e degli elegantissimi pantaloni giallo-oro. La casa si sviluppa in ben 5 piani, come da tradizione delle “case a tubo”, e ogni piano ha una diversa area di approfondimento. Innanzi tutto ci invitano a sederci per un’introduzione al mondo della medicina tradizionale attraverso un filmato di mezz’ora. La voce di sottofondo ci spiega come l’antico metodo di cura vietnamita sia basato principalmente sull’equilibrio di elementi all’interno del corpo umano; le tipologie in cui si raggruppano questi elementi sono diverse, l’esempio più classico è la distinzione tra cibi freddi e caldi ma ve ne sono molte altre. Ogni disturbo o malattia è vista come un disequilibrio di questi costituenti fondamentali per l’organismo che va curata tramite l’assunzione di un principio naturale che contrasti questa mancanza di armonia. La medicina tradizionale si focalizza quindi sul prevenire la malattia, più che sul curarla e, nella visione odierna, è vista come aiuto alla medicina moderna nel prevenire i danni collaterali provocati dai farmaci chimici.

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Le giare di una volta

Saliamo poi al quinto piano dove due splendide terrazze in cui sono piantati due meravigliosi alberi la fanno da protagoniste. Scendendo scopriamo i metodi di preparazione, le varie tipologie di farmaco, le piante con le proprietà più importanti, tra queste il ginger e il fiore di loto, la conservazione delle polveri e molte altre piccole scoperte di questo affascinante mondo così legato alla cultura vietnamita.

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Un sacco di medicine…

 

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Il macinino manuale

Alla fine ci viene anche offerto un gustosissimo thè verde al carciofo che non possiamo fare a meno di riprendere da quanto è buono. Facciamo anche un po’ di shopping comperando il the verde aromatizzato alla cannella e una boccetta con un effluvio potentissimo in grado di sturare qualsiasi naso otturato!

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Laurea ad honorem in medicina tradizionale!

 

”FITO
Sir, in cosa posso esserle utile?

Soddisfatti usciamo e pranziamo proprio di fianco al museo, in un localino con i tipici tavolini e sedie in metallo che serve due cose ma fatte bene. Spendiamo anche poco essendo lontani dal circuito turistico. Ci dirigiamo poi alla bus station per verificare che ci siano bus per Ben Tre, la nostra prima destinazione sul delta del Mekong, e per fare i biglietti. Troviamo tutto e soddisfatti rientriamo in città. Ci rifugiamo nella nostra Bakery sotto casa per due shakeS e un po’ di tranquillità dall’infernale traffico di Saigon. Sì, perché ancora non ne ho parlato ma una delle peculiarità del Vietnam in generale e di Saigon in particolare, è l’inimmaginabile quantità di motorini che infestano le strade. Tanto che se si seguissero le normali regole di sopravvivenza urbana sarebbe impossibile attraversare una qualsiasi strada; dopo un paio di giorni abbiamo però capito che i motorini devono essere ignorati nel valutare l’attraversamento. Se non ci sono macchine all’orizzonte, anche con la strada completamente invasa da trabiccoli a due ruote si inizia a camminare senza tentennamenti e magicamente, come acqua attorno ad uno scoglio, i vietnamiti ti evitano senza scomporsi e te giungi vivo dall’altra parte. O almeno a noi è sempre andata di culo così. Per cena proviamo un ristorantino vicino alla cattedrale un po’ più raffinato dei soliti localini dove andiamo. Nonostante l’atmosfera molto particolare e il cibo buono forse il conto è leggermente esagerato per il costo medio di qui (ma son sempre solo 17$ per una cena).

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L’imbarazzo della scelta

Prima di tornare in stanza ci facciamo una passeggiata un po’ più lunga nel centro di Saigon, o per lo meno il centro dei backpackers. Mentre passeggiamo nel parco un gruppo di ragazzi e ragazze ci avvicina e ci chiede se ci possono fare un’intervista. Noi siamo come al solito un po’ intimiditi ma accettiamo. I 5 o 6 ragazzi, ognuno con il proprio questionario alla mano, ci iniziano a fare domande a raffica, facendo a gara a chi ce la fa per prima e rubandosi di volta in volta il primato. Ci chiedono se ci piace il Vietnam e in particolare Saigon, se ci sentiamo sicuri in questa città e se vorremmo migliorare qualcosa. I ragazzi sembrano soddisfatti delle nostre risposte, ma noi no, a pensarci a posteriori avremmo potuto dire molte cose più intelligenti ed elaborate. Su una cosa però ci mettono in guardia: attenzione ai borseggiatori! I ragazzi sono stati molto carini e sono sembrati molto compiaciuti dei nostri elogi sulla gentilezza del popolo vietnamita e così ci separiamo felici, e ancora un po’ imbarazzati, di questa esperienza.
La mattina seguente inizia il nostro tour del delta del Mekong prendendo l’autobus verso Ben Tre…e che Dio ce la mandi buona!

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